Addio Keynes…

Il pareggio di bilancio, di fatto, sancisce l’illegalità del
keynesismo. Secondo Jhon Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la
‘domanda aggregata’ insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a
far ripartire l’economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi
ripagato quando la crescita fosse ripresa. Ora, impedendo costituzionalmente il
deficit di bilancio dello Stato – se non per casi eccezionali e comunque per
periodi di tempo limitati – tutto ciò sarà impossibile.

Da oggi il nostro paese abbraccia ufficialmente l’ideologia economica per la
quale la priorità è evitare il deficit spending, ossia che lo Stato possa
finanziare parte della domanda indebitandosi. Questa cosa può sembrare
apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è
assolutamente folle. Così facendo si stanno replicando gli errori drammatici
degli anni ’30: quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come
ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe
fondamentale un deciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in
modo che la ‘domanda aggregata’, cioè l’insieme dell’economia, aumenti, per
ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire
con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di
tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo
non sarà più possibile.

Per un paese come l’Italia significa che sarà impossibile
mettere soldi nei settori che invece richiedono un forte investimento. Ad
esempio nella cultura, nella ricerca o nelle infrastrutture ‘utili’. ‘Utili’
come la Salerno-Reggio Calabria, per intenderci, e non come il Ponte sullo
Stretto. Non è un caso se il nostro è un paese che per la ricerca spende meno
della media europea. Non è un caso se il nostro è un paese con un sistema
scolare e post-scolare che versa in condizioni drammatiche a causa dei tagli
iniziati nel 2008. Non è un caso se tra gli Stati europei il nostro è ai primi
posti, insieme ai paesi più arretrati d’Europa (in primis Portogallo e Grecia),
per bassa qualifica dei nostri lavoratori. Oggi abbiamo reso illegale il
‘deficit spending’. Questo significa che sarà impossibile investire ma
soprattutto attivare una serie di diritti previsti dalla nostra Costituzione:
il diritto alla scolarità che non deve essere ‘per ceto’, l’assistenza
sanitaria gratuita per tutti, il diritto a una serie di servizi alla persona.
Ora, interpretando la Costituzione facendo perno sull’articolo 81 come
modificato, tutti questi diritti primari non saranno più esigibili. O almeno
saranno subordinati all’articolo 81.

Il pareggio di bilancio, di fatto, è un attacco ai diritti di
base che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti, il senso di questa
riforma costituzionale è che se uno ‘vuole’ dei diritti, se li deve pagare. Non
sarà più lo Stato a raccogliere risorse per i suoi cittadini. Peccato, però, che
guardando alla crescita economica di lungo periodo, per uscire da una crisi
come quella che stiamo attraversando, servirebbero tutta una serie di
investimenti che il privato non si sobbarcherà mai.

Per diverso tempo Tremonti all’epoca del suo dicastero
all’Economia ha ingannato i mercati facendo leva su false previsioni di
crescita, parlando di una crescita maggiore di quella che si sarebbe poi
verificata. Ma il meccanismo di queste ‘bugie’ era chiaro: si aveva bisogno
della crescita per far si che il deficit diminuisse. Comunque la si voglia
vedere, i dati di fatto da cui partire per analizzare le conseguenze di questa
riforma sono due. Il primo: con la crisi, sono diminuite le entrate fiscali e
sono aumentate le spese per gli ammortizzatori sociali. Il secondo: si continua
a incentrare qualsiasi analisi sul rapporto tra debito e Pil. Dove il debito è
il numeratore e il Pil il denominatore. Ma io posso far calare il numeratore
all’infinito (in questo caso, tagliando all’inverosimile la spesa pubblica), ma
se è il numeratore a diminuire più velocemente (e il Pil è la ricchezza
prodotta), ecco che il rapporto sarà sempre destinato a peggiorare. Sembra una
cosa evidente, ma per qualcuno al governo evidentemente non lo è. Basterebbe
ragionare partendo da questo aspetto per capire che una vera manovra per uscire
dalla crisi dovrebbe essere calibrata per fare in modo che si impedisca al Pil
di scendere. Cosa che, invece, puntualmente accade con ogni manovra di
austerity. Dopo i 55 miliardi di tagli di Berlusconi, siamo ai 30 miliardi di
tagli di Monti. Ma questi 85 miliardi di tagli hanno impattato fortemente sulla
crescita. Si è lavorato sullo ‘stabilizzatore keynesiano’ ma al contrario. E’
crollata la domanda privata, e di riflesso è crollata la domanda pubblica.
Così, di colpo, abbiamo settori di imprese rivolte al mercato interno in grave
difficoltà, mentre quelle imprese che lavorano sul mercato estero sono in
ripresa. Ma così si è soltanto indebolita l’economia italiana.

Qui la sfida è una crescita reale, possibile solo abbandonando
le ricette adoperate negli ultimi tempi. Se si riduce drammaticamente la spesa
pubblica in tempo di crisi, il futuro è la Grecia. C’è poco da girarci attorno.
Con i tagli su tagli, l’economia greca di obbedienza all’Unione europea è
crollata del 6,5% per tre anni consecutivi. E’ praticamente implosa. E il Pil
crollato. Il risultato, per fare esempi chiari da vita quotidiana, è che oggi
in Grecia si comprano il 20% in meno di medicine. E parliamo di un bene
essenziale. Con la Grecia si è andati dietro l’ideologia folle che nasce
dall’incomprensione di quanto è successo. Il debito pubblico non è la causa
della crisi, ma la sua conseguenza. Il debito pubblico nasce dal tentativo di
tamponare la crisi, ad esempio salvando le banche. Un esempio: la Germania ha
‘coperto’ le banche con qualcosa come 200miliardi di euro negli ultimi dieci
anni. Risultato: il debito pubblico tedesco è cresciuto di 750miliardi di euro
in dieci anni. La cosa bizzarra, però, è che i tedeschi hanno adottato misure
di compensazione del deficit spending per far fronte a questa situazione e nel
2009 hanno speso il 3% del Pil per salvare le loro imprese. Ebbene, quella
stessa Germania oggi impone il divieto di deficit spending ai paesi più deboli
dell’Unione europea.

C’è una sola via d’uscita: guardare meno al giorno per giorno e
progettare per il lungo periodo. Purtroppo il nostro governo tecnico nasce per
l’emergenza e non riesce a progettare nel lungo periodo, anche perché per farlo
servirebbe una larga investitura popolare. Ma se continuiamo a vivere
nell’emergenza, e questo governo continua a fare politiche ‘da stato di
emergenza’, è inevitabile infilarci in un tunnel senza uscita. Non è un caso
che per alcuni istituti il Pil quest’anno diminuirà del 2,6%, con una
diminuzione prevista per il prossimo anno del 2,9%. Stando così le cose, sarà
inevitabile dover ricorrere a nuove manovre di austerity. Ed ecco qui la
spirale, innestata proprio dal vincolo costituzionale del pareggio di bilancio.
Facendo due rapidi calcoli a partire dall’obbligo sancito dal ‘Fiscal compact’
di dover ridurre il debito pubblico del 5% annuo per quanto eccede il Pil del
60% – ovvero un ventesimo del Pil – ecco che per un certo numero di anni il
nostro paese sarebbe chiamato a manovre annuali di 45miliardi di euro. Senza
considerare quanto paghiamo di interessi sul debito: nel 2012 qualcosa come 72
miliardi di euro. Di fatto, l’Italia per i prossimi anni sarebbe costretta a
manovre, per ridurre il suo debito pubblico, di circa 120 miliardi di euro
l’anno. Una follia. O meglio, la perfetta ricetta per il disastro economico. Un
disastro motivato dall’assurda idea di fondo che si debba cancellare il debito
pubblico. Ma la realtà è un altra: nessuno ti chiede di azzerare il debito. Quello
che interessa i mercati, infatti, non è che il debito venga cancellato ma che
si stabilizzi.

L’obiettivo dovrebbe
essere non far crescere tendenzialmente il debito e far ripartire i consumi…
ma al governo di banchieri non interessa questo interessa salvaguardare i
grandi investimenti (soprattutto stranieri) a totale discapito non dei singoli
cittadini ma dell’intera nazione. AMEN