Senza democrazia l’Europa muore

Questa volta le elezioni europee possono essere veramente europee, ovvero non semplicemente per mandare dei segnali alla politica nazionale, ma per dire che tipo di Europa vogliamo.

Al momento si confrontano due idee di Europa. Con una certa approssimazione, si possono definire, l’una come l’Europa dei “mercati prima di tutto”, l’altra come la (non)Europa delle “nazioni prima di tutto”.

Sono entrambe antistoriche ed ancorate al passato: la prima è una visione precedente alla crisi finanziaria e ambientale, la seconda invece legata addirittura all’ottocento. Sono entrambe idee perdenti che porteranno all’impoverimento e alla marginalizzazione dei popoli europei nel mondo globalizzato.

I sostenitori di queste tesi sono eterogenei  e tutt’altro che identici.

Fra i sostenitori della prima troviamo seppur con diverse sensibilità sia la destra della Merkel sia la “quasi sinistra” del PD o della SPD.

Fra i sostenitori della seconda, i fascisti e gli xenofobi della Le Pen e della Lega ma anche i venditori di fumo dei grillini.

Non sono certo uguali ma la loro idea di Europa si assomiglia e porta, purtroppo, al fallimento ed alla morte del sogno Europeo.

Tutte e due queste visioni dell’Europa sottintendono un errore di fondo: la stima negativa delle interdipendenze strutturali che oramai esistono fra le economie e le società dei Paesi Europei.

Ignorano entrambi che i popoli europei o superano la crisi insieme e insieme imboccano un nuovo e diverso sentiero di sviluppo sia umano che economico oppure insieme affondano, Germania compresa.

Ignorare il fatto che i paesi europei sono tutti necessariamente accumunati dallo stesso destino, confina entrambe le posizioni a rinchiudersi in una logica di fatto nazionalistica.

Solo un ritorno ad un miope egoismo nazionale può spiegare il paradosso della Germania, paese che non si può definire neoliberista per quanto riguarda la sua politica interna ma la cui classe politica usa ideologicamente il neoliberismo per assecondare gli istinti peggiori e le paure nemmeno tanto nascoste del suo elettorato. Quello che unisce la Merkel, Schulz, Le Pen, Grillo è in realtà la paura dell’Europa, la paura dell’Europa dei cittadini.

Mentre è proprio quello di cui abbiamo bisogno.

Per realizzarla dobbiamo imboccare un’altra strada, cercare un’altra Europa: l’Europa della “democrazia prima di tutto”.

Al momento sembra una strada nuova nell’asfittico panorama politico europeo ma a pensarci bene è un idea potente perché antica e fortemente radicata nella storia del nostro continente.

Le nazioni europee occidentali si sono sviluppate ottenendo risultati straordinari nel secolo scorso coniugando insieme mercati e democrazia. Il successo delle loro scelte era tutto nella forza del binomio competizione e cooperazione.

Lo possiamo chiamare, modello di stato sociale europeo, ma altro non è che il risultato di sistemi politico/istituzionali che permettevano di sfruttare la sinergia fra competizione e cooperazione, fra mercato e regolazione.

La globalizzazione ha messo in crisi questo meccanismo rendendo debole se non inutile la democrazia a livello nazionale. L’ideologia liberista, per ignoranza o malafede, ha combattuto il modello europeo ritenendo che la competizione possa prescindere dalla democrazia, illudendosi e illudendo che i mercati da soli  possano portare ad una crescita sostenibile (socialmente ed ecologicamente) e costante

L’intelaiatura istituzionale Europea è sbagliata perché parte da questo assunto errato: la democrazia e le istituzioni politiche sono un ostacolo alla crescita economica ed al libero operare delle forze del mercato. Per questo sono state immaginate non per trasferire a livello europeo le politiche economiche ed industriali nazionali, ma solo per limitare e vincolare le politiche statali imponendo loro paletti e barriere (con il Fiscal Compact si limita l’autonomia delle politiche fiscali, con la moneta unica si abolisce l’indipendenza monetaria, con il mito del mercato unico si penalizza l’utilizzo di politiche industriali nazionali).  Nell’idea tutta squisitamente ideologica che le politiche fossero inutili; la mano invisibile del mercato cura tutti i mali, sana le imperfezioni, annulla le differenze, ma questa è solo una favola e oggi se ne capisce la drammaticità.

Nei Paesi già sviluppati, l’indebolimento della politica ha determinato una sempre minore redistribuzione della ricchezza che non solo ha impoverito le classi medie e medio-basse ma ha anche ridotto la domanda aggregata ed è stata concausa importante della crisi.

La proposta di un’Europa della “democrazia prima di tutto” deve partire dall’idea che la più importante riforma strutturale di cui l’economia europea ha bisogno è la creazione di istituzioni democratiche europee.

E’ la democrazia il nostro più importante volano di sviluppo.

Il mercato da solo non basta. Non basta a garantire una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, ma non basta neanche a garantire una crescita economica di per se stessa.

Senza democrazia l’Europa muore e, con buona pace dei “benpensanti”, morirà anche il suo mercato.

Ineludibile?

Sembra ineludibile ormai che l’unica via di uscita dalla crisi, che fino a pochi mesi fa in Italia abbiamo fatto finta non ci riguardasse, sia quella dei sacrifici dei soliti fessi.

Penso invece che non sia esattamente così e molte volte rileggere anche un po’ di storia faccia bene a noi tutti.

Giambattista Vico ci diceva nel suo libro “Scienza Nuova”:

« Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar di sostanze »

a questa dissoluzione pone rimedio l’intervento della Provvidenza che a volte non può impedire la regressione nella barbarie, da cui si genererà un nuovo corso storico che ripercorrerà, a un livello superiore, poiché dell’epoca passata ne è rimasta una sia pur minima eredità, la strada precedente.

Ebbene, siccome stiamo, per “istrapazzar di sostanze”, forse è bene riconsiderare lo stato dei fatti cercando soluzioni se non del tutto alternative a quelle prospettateci dai partner
europei, anche se partner non è un termine che si addice molto bene, partner infatti è un termine inglese che si traduce letteralmente “compagno” ovvero chi è pronto a condividere il proprio pane (dal termine latino cum panem), pertanto visto che qui tutti sono pronti non a condividere il pane ma piuttosto a fregarlo al vicino o meglio al più debole, sarebbe più corretto parlare di soci europei in quanto partecipanti ad una comune impresa economica e nulla più. Purtroppo.

Proviamo a ricapitolare: La BCE ha chiesto all’Italia “misure” volte al taglio della spesa  sociale, dei diritti, delle pensioni, del numero degli impiegati pubblici e degli stipendi; per far questo si pensa di eliminare tutele dai licenziamenti per arrivare alla revisione generale se non all’eliminazione dello stesso contratto nazionale di lavoro; inoltre si prevede di privatizzare tutti i servizi pubblici e svendere beni e patrimoni.

Tutti i principali attori a partire da Confindustria fino agli schieramenti di centrodestra e centrosinistra, aderiscono, con convinzioni più o meno decise, a queste direttive con l’impegno a fare in fretta cercando una “larga condivisione” di queste misure di rigore che appaiono comunque a senso unico.

Siccome si è tutti d’accordo che è questa l’unica via di uscita perché perdere tempo  a cercarne di altre?

Non credo si tratti di perdere tempo e il motivo è un semplice assunto di fisica: se la via di uscita è una sola la pressione del fluido è massima, se le vie di uscita sono molteplici la pressione decresce suddividendosi tra le varie uscite a disposizione, quindi la ricerca di ulteriori possibilità è un obbligo per chi ritiene di poter governare un paese, magari non si troveranno altre vie d’uscita ma è necessario provarci prima di arrivare alla regressione nella barbarie.

Ho paura che queste direttrici, assunte come via di uscita unica, oltre a precarizzare ed impoverire ulteriormente coloro che già pagano questa crisi, possano generare ulteriore recessione e peggiorare lo stato dell’economia.

Questo modo di procedere sembra essere il frutto di sistemi predatori che fanno l’eco alla presa d’atto che in questo modello non ci sono soluzioni per una crisi peraltro generata all’interno dello stesso.

La storia può venirci in aiuto, ad esempio Franklin D. Roosevelt, divenuto presidente degli Stati Uniti nel 1932 nel pieno della crisi iniziata nel 1929, nei primi 100 giorni del suo mandato ha fatto approvare dal Congresso americano una serie di provvedimenti volti a creare un avanzato sistema di sicurezza sociale, ha legittimato il ruolo dei sindacati, ha introdotto una rigida regolamentazione dell’attività bancaria, ha allargato la presenza dello stato nell’economia (al fine di contrastare la disoccupazione e per dare impulso alle infrastrutture) ed ha promosso le svalutazioni competitive.

I primi provvedimenti di Roosvelt furono:

1 ) svalutazione del dollaro per rialzare il livello dei prezzi
2 ) lavori pubblici finanziati dallo Stato per il graduale ma costante riassorbimento della disoccupazione
3 ) salari minimi garantiti e riduzione dell’orario di lavoro: tutti lavoravano;

4 ) prezzi minimi ai prodotti e blocco della concorrenza sleale nel commercio;

5 ) nessun limite ai sindacati e obbligo per gli imprenditori a trattare.
6 ) Controllo e riorganizzazione da parte Stato del sistema bancario con particolare attenzione alla  sorveglianza delle borse e del mercato azionario
7 ) Politica energetica volta a sfruttare le forze idroelettriche su una vasta area a vantaggio dei consumatori e dell’elettricità a minor prezzo rispetto alle compagnie private.

8 ) l’emanazione dell’Agricultural Adjustement Act che tramite una serie di incentivi mirava a limitare la sovrapproduzione agricola che aveva causato una drastica caduta dei prezzi a danno di milioni di agricoltori

9 ) l’approvazione del National Industrial Recovery Act che imponeva l’adozione per ogni azienda di un codice di disciplina produttiva limitando la sovrapproduzione, rinunciando al lavoro nero e a quello minorile.

10) l’emanazione di una riforma fiscale che inaspriva le imposte per i ceti più elevati
Questo piano fu elaborato con l’aiuto di studiosi e politici, quello che venne chiamato il brain trust.

Inoltre egli favorì la sindacalizzazione dei lavoratori e il sistema nazionale di previdenza per assicurare la pensione; istituì un controllo federale della attività bancarie, un controllo dei rapporti tra le società finanziare e le imprese di pubblica utilità. Le organizzazioni sindacali appoggiarono l’operato di Roosvelt fino alla sua rielezione nel 1936.

Queste politiche fecero il paio con le teorie dell’economista inglese Keynes che sostenne la politica interventista statale contro il conservatorismo politico dei governi europei; puntare su una più vigorosa politica di spesa pubblica da realizzare con deficit di bilancio (e non con nuove tassazioni).

L’obiettivo era quello di aumentare l’occupazione, il potere di acquisto nazionale e stimolare la ripresa degli investimenti privati e di fondamentale importanza fu il ruolo della Banca centrale.

Nella Teoria generale, Keynes afferma che sono giustificabili le politiche destinate a stimolare la domanda inperiodi di disoccupazione, ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica.

Keynes non ha piena fiducia nella capacità del mercato lasciato a se stesso di esprimere una domanda di piena occupazione, ritiene necessario che in talune circostanze sia lo Stato a stimolare la domanda. Ciò potrà essere finanziato anche tramite politiche di deficit di bilancio; l’indebitamento pubblico, sotto determinate ipotesi, non aumenterà il tasso di interesse al punto di scoraggiare l’investimento privato.

Queste linee risultarono vincenti e il cosiddetto “New Deal” trainò fuori dalla crisi mondiale prima gli Stati Uniti epoi il resto del mondo, ovviamente oggi non è ne pensabile ne possibile applicare queste direttrici in maniera totale e univoca ma comunque possono e quantomeno dovrebbero essere di spunto e riflessione per correggere il tiro delle proposte che sono state messe in campo e che già appaiono deboli e controverse.

Il principale problema dell’economia italiana non risiede nell’elevato volume del debito pubblico, ma  soprattutto nella bassa crescita economica, occorre coniugare rigore di bilancio con misure che incentivino consumi e investimenti, ciò è molto difficile da raggiungere, ma si possono porre alcune considerazioni.

Gli investimenti dipendono in larga  parte dalle aspettative degli imprenditori, ma è difficile immaginare interventi di politica economica che, per soli effetti di annuncio, ne producano l’aumento, quindi a mio modo di vedere è più efficace, almeno nel breve periodo, provare ad agire sui consumi.

Si può partire dalla constatazione per la quale la bassa crescita dell’economia italiana è in larga misura imputabile alla modesta capacità di spesa delle famiglie, a sua volta connessa al basso livello dei salari (e alla continua riduzione del loro potere di acquisto). Ma  questo non è un prodotto dalla crisi in corso.

Il Fondo Monetario Internazionale stima che, negli ultimi dieci anni, il tasso di crescita in Italia si è assestato a un modesto 2.43% e che il PIL pro-capite resta ai livelli del 1998, a fronte di una crescita media nell’eurozona di oltre 10 punti percentuali superiore nel periodo considerato.

Con riferimento ai salari, l’OCSE registra che lo stipendio netto di un lavoratore italiano è di circa 1.300 euro al mese, a fronte dei 2.800 euro al mese di un suo collega inglese. Il salario medio di un lavoratore tedesco è di circa il 24% superiore a quello di un lavoratore italiano e quello di un francese di quasi il 18%.

Fra i 30 Paesi industrializzati presi in considerazione, l’Italia si colloca al 23esimo posto per livello medio delle retribuzioni, seguita solo da Portogallo, Turchia, Repubblica Ceca, Messico, Slovacchia e Ungheria.

Le misure di precarizzazione del lavoro spiegano parte del problema, e non vi è dubbio che la riduzione della sicurezza dei lavoratori ha significativamente contribuito alla riduzione della quota dei salari sul prodotto interno lordo, contribuendo a ridurre il tasso di crescita e l’occupazione.

Questo è spiegabile con almeno due assunti:

1) La precarietà disincentiva le innovazioni.

Se un’impresa può ottenere profitti mediante la flessibilità della forza lavoro, comprimendo i salari e i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, non ha alcuna convenienza a utilizzare risorse per finanziare attività di ricerca e sviluppo. Ricerca e sviluppo danno inoltre risultati di lungo periodo, non compatibili con la competizione su scala globale. La riduzione delle innovazioni riduce il tasso di crescita e quindi la tutela sociale del lavoro dipendente. Inoltre si fa un gran parlare della cooperazione fra lavoratori all’interno di un team per aumentare la produttività del lavoro ma in condizioni nelle quali è elevato il grado di incertezza in ordine al rinnovo del contratto di lavoro, è ragionevole ritenere che la cooperazione fra lavoratori si riduca. In tal senso, la “flessibilità” contrattuale tende a promuovere la competizione (o il conflitto) fra lavoratori, riducendo la produttività del team.

2) La precarietà riduce la propensione al consumo.

La somministrazione di contratti a tempo determinato accresce l’incertezza dei lavoratori in ordine al reddito futuro. Al fine di mantenere un profilo di consumi nel tempo quanto più possibile inalterato è ragionevole attendersi un aumento dei risparmi oggi per far fronte all’eventualità di dover consumare domani senza reddito da lavoro. Le conseguenze ipotizzabili sono due: da unlato, le imprese fronteggiano una domanda di beni di consumo in calo; dall’altro, possono produrre quantità maggiori di beni e servizi con un numero inferiore di lavoratori. L’esito inevitabile è il licenziamento o la non assunzione.

La somministrazione di contratti a tempo indeterminato consentirebbe invece la crescita della domanda anche per il tramite della maggiore solvibilità dei lavoratori e del più semplice accesso a finanziamenti bancari e si può ipotizzare un effetto positivo, in prima battuta sulla domanda di abitazioni e, a seguire, sull’indotto in quel mercato.

Se si intende far riprendere la crescita economica in Italia senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, non si dovrebbe escludere ciò che l’evidenza teorica ed empirica suggerisce e trarne le dovute conseguenze: riscrivere la legge 30/2003 (la cosiddetta Legge Biagi) che tra l’altro sarebbe un’operazione a costo zero.

Oltre che rilanciare la crescita è necessario creare meccanismi efficaci per regolamentare i mercati finanziari mediante una maggiore sorveglianza macroeconomica, compresi i meccanismi di allerta e sanzione, per bloccare la speculazione cambiando trattati e regole per consentire una radicale ristrutturazione del debito, tagliando ad esempio quello nei confronti dei fondi speculativi e delle banche che hanno beneficiato degli aiuti pubblici per poi tornare a speculare. Sono necessarie inoltre misure volte  alla tassazione delle transazioni finanziarie e il blocco delle famigerate vendite di titoli “allo scoperto”.

E’ altrettanto indispensabile che ci sia una netta distinzione tra banche commerciali (finalizzate al credito) e banche d’affari (speculative).

C’è bisogno di aprire nuove linee di credito (tramite eurobond, nuova moneta, tobin tax) per la riconversione ecologica dell’economia. bisogna operare grandi e nuovi investimenti sulla conoscenza. Grandi piani industriali e programmi nazionali: sull’energia da fonti diffuse e rinnovabili, sui trasporti e la mobilità sostenibile, l’agricoltura biologica, l’efficienza energetica degli immobili pubblici e privati, sulla difesa del territorio.
Per rilanciare una diversa economia, più centrata sulle risorse, vocazioni e aspirazioni dei territori, è indispensabile però determinare subito una drastica redistribuzione delle ricchezze attraverso politiche fiscali che colpiscano i grandi patrimoni immobiliari e finanziari, l’evasione e i paradisi fiscali.

In Italia negli ultimi decenni sono cresciuti a dismisura gli squilibri tra i pochi che posseggono tanto e i tanti sempre più poveri e precari. Il debito pubblico è gonfiato da sprechi e privilegi, spese militari, grandi opere dannose, finanziamenti a imprese che poi delocalizzano, licenziano, precarizzano il lavoro, debito che continua a galoppare a causa degli interessi a tasso da usura applicati ad esso da chi oggi ci vorrebbe ricattare e ad i quali a nostra volta possiamo fare pressioni perché, è utile ricordarlo, nostra insolvenza improvvisa e generalizzata travolgerebbe tutte le economie europee, l’Euro e la stessa U.E.

E’ di fondamentale importanza quindi che la politica recuperi il potere che essa stessa ha ceduto ai mercati ed alla finanza non capendo che il processo di cannibalizzazione è insito nell’uomo e non nei sistemi. Dobbiamo ri-democraticizzare la politica tornando ad un sistema elettorale proporzionale e proponendo strumenti utili al coinvolgimento dei cittadini, lavoratori, utenti, nelle scelte sui beni comuni ed i servizi che attengono i diritti basilari.

Il compito della politica italiana sta nel cercare un nuovo equilibrio partendo dalla inevitabilità della rottura dell’equilibrio esistente come conseguenza delle riforme, riforme che abbiano la funzione generatrice per la collettività di rendimenti superiori al costo delle riforme stesse.

Se a qualsiasi forza seria di sinistra, si chiede di rinunciare all’obiettivo di riforma del meccanismo di sviluppo esistente, si chiede qualcosa che nessun uomo della sinistra degno di questo nome potrà mai dare, pena la rinuncia ad una fondamentale e caratterizzante posizione.

A partire dal risanamento del settore pubblico, disarticolato da anni di troppo facile ed allegra amministrazione, è condizione del successo della sua politica, impegno riformatore non minore di altri, se la politica di centro-sinistra vuole avere per sé l’avvenire.

Ma se volere riformare un meccanismo di sviluppo esistente significa non volerlo distruggere, ma perseguirne il potenziamento dell’esistente, allora la sinistra italiana avrà fallito.

Per ottenere un nuovo equilibrio è necessario distruggere quello esistente, è necessaria una netta discontinuità con il passato sia nei metodi ma anche negli uomini che sono portatori dei metodi.

Cristian Odoardi