Senza coerenza non c’è cambiamento

Cari Amici,

questo blog è rimasto silente per 22 mesi per una precisa scelta.

L’ultimo post infatti risale al 20 aprile 2012 nel quale notavo come in Italia le politiche che si stavano attuando stavano progressivamente accentuando la crisi che già mordeva, purtroppo non mi sbagliavo.

Il post precedente invece segnava la mia decisione, dopo 16 anni di esperienza ed impegno, di non ricandidarmi al Consiglio Comunale che di li a poco si sarebbe eletto.

Oggi, 20 febbraio 2014 lo scenario purtroppo non è affatto cambiato, le politiche nazionali continuano nella scellerata scelta di privilegiare i grandi investimenti e le rigidità contabili a discapito delle piccole e medie imprese e del potere di acquisto dei cittadini deprimendo ulteriormente i consumi interni.

A livello locale invece ci troviamo come 22 mesi fa, ovvero all’inizio di una nuova campagna elettorale. La giunta Di Mattia è finita esattamente da dove era cominciata: i presupposti della vittoria di “quel centrosinistra” erano stati i cambi di casacca e i cambi di casacca ne hanno decretato la sconfitta e la fine.

Oggi si parla di tradimenti quando invece sarebbe più opportuno parlare di conseguenze, perché a determinate scelte poi bisogna essere anche consapevoli e pronti a sopportare le inevitabili conseguenze che ne derivano.

Non ci sono stati fulmini a ciel sereno perché chi semina vento poi raccoglie tempesta, spesso mi piace citare Guccini quando canta che “le scelte si fanno per tempo e non per contrarietà”, risulta troppo comodo e poco onesto oggi dissociarsi e disconoscere responsabilità quando invece 22 mesi orsono chiunque aveva un minimo di buon senso aveva già compreso che alcune scelte erano solo ed esclusivamente dettate dalla necessità contingente di raccattare qualche voto in più pur di sedere in Consiglio Comunale e magari anche ottenere un assessorato.

Per far questo alcuni si sono comportati come le famose tre scimmiette: “non vedo”, “non sento” e “non parlo”.

Adesso quelle persone dovrebbero avere la decenza e la dignità di tacere.

Così come i cittadini dovrebbero finalmente armarsi di coraggio e scrollarsi di dosso le scelte fatte per convenienza, informarsi per poter scegliere senza turarsi il naso e utilizzare la testa ed il cuore.

Si sente spesso il “mantra” del voto utile, il problema è che andrebbe specificato utile a chi?

Il vero voto utile non è quello che consente di governare a tutti i costi bensì quello che consente alla città di dotarsi di amministratori capaci e preparati (l’onestà invece dovrebbe essere un pre-requisito e non una qualità).

Solo così il voto sarà utile a tutti e non a pochi.

Addio Keynes…

Il pareggio di bilancio, di fatto, sancisce l’illegalità del
keynesismo. Secondo Jhon Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la
‘domanda aggregata’ insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a
far ripartire l’economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi
ripagato quando la crescita fosse ripresa. Ora, impedendo costituzionalmente il
deficit di bilancio dello Stato – se non per casi eccezionali e comunque per
periodi di tempo limitati – tutto ciò sarà impossibile.

Da oggi il nostro paese abbraccia ufficialmente l’ideologia economica per la
quale la priorità è evitare il deficit spending, ossia che lo Stato possa
finanziare parte della domanda indebitandosi. Questa cosa può sembrare
apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è
assolutamente folle. Così facendo si stanno replicando gli errori drammatici
degli anni ’30: quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come
ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe
fondamentale un deciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in
modo che la ‘domanda aggregata’, cioè l’insieme dell’economia, aumenti, per
ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire
con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di
tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo
non sarà più possibile.

Per un paese come l’Italia significa che sarà impossibile
mettere soldi nei settori che invece richiedono un forte investimento. Ad
esempio nella cultura, nella ricerca o nelle infrastrutture ‘utili’. ‘Utili’
come la Salerno-Reggio Calabria, per intenderci, e non come il Ponte sullo
Stretto. Non è un caso se il nostro è un paese che per la ricerca spende meno
della media europea. Non è un caso se il nostro è un paese con un sistema
scolare e post-scolare che versa in condizioni drammatiche a causa dei tagli
iniziati nel 2008. Non è un caso se tra gli Stati europei il nostro è ai primi
posti, insieme ai paesi più arretrati d’Europa (in primis Portogallo e Grecia),
per bassa qualifica dei nostri lavoratori. Oggi abbiamo reso illegale il
‘deficit spending’. Questo significa che sarà impossibile investire ma
soprattutto attivare una serie di diritti previsti dalla nostra Costituzione:
il diritto alla scolarità che non deve essere ‘per ceto’, l’assistenza
sanitaria gratuita per tutti, il diritto a una serie di servizi alla persona.
Ora, interpretando la Costituzione facendo perno sull’articolo 81 come
modificato, tutti questi diritti primari non saranno più esigibili. O almeno
saranno subordinati all’articolo 81.

Il pareggio di bilancio, di fatto, è un attacco ai diritti di
base che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti, il senso di questa
riforma costituzionale è che se uno ‘vuole’ dei diritti, se li deve pagare. Non
sarà più lo Stato a raccogliere risorse per i suoi cittadini. Peccato, però, che
guardando alla crescita economica di lungo periodo, per uscire da una crisi
come quella che stiamo attraversando, servirebbero tutta una serie di
investimenti che il privato non si sobbarcherà mai.

Per diverso tempo Tremonti all’epoca del suo dicastero
all’Economia ha ingannato i mercati facendo leva su false previsioni di
crescita, parlando di una crescita maggiore di quella che si sarebbe poi
verificata. Ma il meccanismo di queste ‘bugie’ era chiaro: si aveva bisogno
della crescita per far si che il deficit diminuisse. Comunque la si voglia
vedere, i dati di fatto da cui partire per analizzare le conseguenze di questa
riforma sono due. Il primo: con la crisi, sono diminuite le entrate fiscali e
sono aumentate le spese per gli ammortizzatori sociali. Il secondo: si continua
a incentrare qualsiasi analisi sul rapporto tra debito e Pil. Dove il debito è
il numeratore e il Pil il denominatore. Ma io posso far calare il numeratore
all’infinito (in questo caso, tagliando all’inverosimile la spesa pubblica), ma
se è il numeratore a diminuire più velocemente (e il Pil è la ricchezza
prodotta), ecco che il rapporto sarà sempre destinato a peggiorare. Sembra una
cosa evidente, ma per qualcuno al governo evidentemente non lo è. Basterebbe
ragionare partendo da questo aspetto per capire che una vera manovra per uscire
dalla crisi dovrebbe essere calibrata per fare in modo che si impedisca al Pil
di scendere. Cosa che, invece, puntualmente accade con ogni manovra di
austerity. Dopo i 55 miliardi di tagli di Berlusconi, siamo ai 30 miliardi di
tagli di Monti. Ma questi 85 miliardi di tagli hanno impattato fortemente sulla
crescita. Si è lavorato sullo ‘stabilizzatore keynesiano’ ma al contrario. E’
crollata la domanda privata, e di riflesso è crollata la domanda pubblica.
Così, di colpo, abbiamo settori di imprese rivolte al mercato interno in grave
difficoltà, mentre quelle imprese che lavorano sul mercato estero sono in
ripresa. Ma così si è soltanto indebolita l’economia italiana.

Qui la sfida è una crescita reale, possibile solo abbandonando
le ricette adoperate negli ultimi tempi. Se si riduce drammaticamente la spesa
pubblica in tempo di crisi, il futuro è la Grecia. C’è poco da girarci attorno.
Con i tagli su tagli, l’economia greca di obbedienza all’Unione europea è
crollata del 6,5% per tre anni consecutivi. E’ praticamente implosa. E il Pil
crollato. Il risultato, per fare esempi chiari da vita quotidiana, è che oggi
in Grecia si comprano il 20% in meno di medicine. E parliamo di un bene
essenziale. Con la Grecia si è andati dietro l’ideologia folle che nasce
dall’incomprensione di quanto è successo. Il debito pubblico non è la causa
della crisi, ma la sua conseguenza. Il debito pubblico nasce dal tentativo di
tamponare la crisi, ad esempio salvando le banche. Un esempio: la Germania ha
‘coperto’ le banche con qualcosa come 200miliardi di euro negli ultimi dieci
anni. Risultato: il debito pubblico tedesco è cresciuto di 750miliardi di euro
in dieci anni. La cosa bizzarra, però, è che i tedeschi hanno adottato misure
di compensazione del deficit spending per far fronte a questa situazione e nel
2009 hanno speso il 3% del Pil per salvare le loro imprese. Ebbene, quella
stessa Germania oggi impone il divieto di deficit spending ai paesi più deboli
dell’Unione europea.

C’è una sola via d’uscita: guardare meno al giorno per giorno e
progettare per il lungo periodo. Purtroppo il nostro governo tecnico nasce per
l’emergenza e non riesce a progettare nel lungo periodo, anche perché per farlo
servirebbe una larga investitura popolare. Ma se continuiamo a vivere
nell’emergenza, e questo governo continua a fare politiche ‘da stato di
emergenza’, è inevitabile infilarci in un tunnel senza uscita. Non è un caso
che per alcuni istituti il Pil quest’anno diminuirà del 2,6%, con una
diminuzione prevista per il prossimo anno del 2,9%. Stando così le cose, sarà
inevitabile dover ricorrere a nuove manovre di austerity. Ed ecco qui la
spirale, innestata proprio dal vincolo costituzionale del pareggio di bilancio.
Facendo due rapidi calcoli a partire dall’obbligo sancito dal ‘Fiscal compact’
di dover ridurre il debito pubblico del 5% annuo per quanto eccede il Pil del
60% – ovvero un ventesimo del Pil – ecco che per un certo numero di anni il
nostro paese sarebbe chiamato a manovre annuali di 45miliardi di euro. Senza
considerare quanto paghiamo di interessi sul debito: nel 2012 qualcosa come 72
miliardi di euro. Di fatto, l’Italia per i prossimi anni sarebbe costretta a
manovre, per ridurre il suo debito pubblico, di circa 120 miliardi di euro
l’anno. Una follia. O meglio, la perfetta ricetta per il disastro economico. Un
disastro motivato dall’assurda idea di fondo che si debba cancellare il debito
pubblico. Ma la realtà è un altra: nessuno ti chiede di azzerare il debito. Quello
che interessa i mercati, infatti, non è che il debito venga cancellato ma che
si stabilizzi.

L’obiettivo dovrebbe
essere non far crescere tendenzialmente il debito e far ripartire i consumi…
ma al governo di banchieri non interessa questo interessa salvaguardare i
grandi investimenti (soprattutto stranieri) a totale discapito non dei singoli
cittadini ma dell’intera nazione. AMEN

Ineludibile?

Sembra ineludibile ormai che l’unica via di uscita dalla crisi, che fino a pochi mesi fa in Italia abbiamo fatto finta non ci riguardasse, sia quella dei sacrifici dei soliti fessi.

Penso invece che non sia esattamente così e molte volte rileggere anche un po’ di storia faccia bene a noi tutti.

Giambattista Vico ci diceva nel suo libro “Scienza Nuova”:

« Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar di sostanze »

a questa dissoluzione pone rimedio l’intervento della Provvidenza che a volte non può impedire la regressione nella barbarie, da cui si genererà un nuovo corso storico che ripercorrerà, a un livello superiore, poiché dell’epoca passata ne è rimasta una sia pur minima eredità, la strada precedente.

Ebbene, siccome stiamo, per “istrapazzar di sostanze”, forse è bene riconsiderare lo stato dei fatti cercando soluzioni se non del tutto alternative a quelle prospettateci dai partner
europei, anche se partner non è un termine che si addice molto bene, partner infatti è un termine inglese che si traduce letteralmente “compagno” ovvero chi è pronto a condividere il proprio pane (dal termine latino cum panem), pertanto visto che qui tutti sono pronti non a condividere il pane ma piuttosto a fregarlo al vicino o meglio al più debole, sarebbe più corretto parlare di soci europei in quanto partecipanti ad una comune impresa economica e nulla più. Purtroppo.

Proviamo a ricapitolare: La BCE ha chiesto all’Italia “misure” volte al taglio della spesa  sociale, dei diritti, delle pensioni, del numero degli impiegati pubblici e degli stipendi; per far questo si pensa di eliminare tutele dai licenziamenti per arrivare alla revisione generale se non all’eliminazione dello stesso contratto nazionale di lavoro; inoltre si prevede di privatizzare tutti i servizi pubblici e svendere beni e patrimoni.

Tutti i principali attori a partire da Confindustria fino agli schieramenti di centrodestra e centrosinistra, aderiscono, con convinzioni più o meno decise, a queste direttive con l’impegno a fare in fretta cercando una “larga condivisione” di queste misure di rigore che appaiono comunque a senso unico.

Siccome si è tutti d’accordo che è questa l’unica via di uscita perché perdere tempo  a cercarne di altre?

Non credo si tratti di perdere tempo e il motivo è un semplice assunto di fisica: se la via di uscita è una sola la pressione del fluido è massima, se le vie di uscita sono molteplici la pressione decresce suddividendosi tra le varie uscite a disposizione, quindi la ricerca di ulteriori possibilità è un obbligo per chi ritiene di poter governare un paese, magari non si troveranno altre vie d’uscita ma è necessario provarci prima di arrivare alla regressione nella barbarie.

Ho paura che queste direttrici, assunte come via di uscita unica, oltre a precarizzare ed impoverire ulteriormente coloro che già pagano questa crisi, possano generare ulteriore recessione e peggiorare lo stato dell’economia.

Questo modo di procedere sembra essere il frutto di sistemi predatori che fanno l’eco alla presa d’atto che in questo modello non ci sono soluzioni per una crisi peraltro generata all’interno dello stesso.

La storia può venirci in aiuto, ad esempio Franklin D. Roosevelt, divenuto presidente degli Stati Uniti nel 1932 nel pieno della crisi iniziata nel 1929, nei primi 100 giorni del suo mandato ha fatto approvare dal Congresso americano una serie di provvedimenti volti a creare un avanzato sistema di sicurezza sociale, ha legittimato il ruolo dei sindacati, ha introdotto una rigida regolamentazione dell’attività bancaria, ha allargato la presenza dello stato nell’economia (al fine di contrastare la disoccupazione e per dare impulso alle infrastrutture) ed ha promosso le svalutazioni competitive.

I primi provvedimenti di Roosvelt furono:

1 ) svalutazione del dollaro per rialzare il livello dei prezzi
2 ) lavori pubblici finanziati dallo Stato per il graduale ma costante riassorbimento della disoccupazione
3 ) salari minimi garantiti e riduzione dell’orario di lavoro: tutti lavoravano;

4 ) prezzi minimi ai prodotti e blocco della concorrenza sleale nel commercio;

5 ) nessun limite ai sindacati e obbligo per gli imprenditori a trattare.
6 ) Controllo e riorganizzazione da parte Stato del sistema bancario con particolare attenzione alla  sorveglianza delle borse e del mercato azionario
7 ) Politica energetica volta a sfruttare le forze idroelettriche su una vasta area a vantaggio dei consumatori e dell’elettricità a minor prezzo rispetto alle compagnie private.

8 ) l’emanazione dell’Agricultural Adjustement Act che tramite una serie di incentivi mirava a limitare la sovrapproduzione agricola che aveva causato una drastica caduta dei prezzi a danno di milioni di agricoltori

9 ) l’approvazione del National Industrial Recovery Act che imponeva l’adozione per ogni azienda di un codice di disciplina produttiva limitando la sovrapproduzione, rinunciando al lavoro nero e a quello minorile.

10) l’emanazione di una riforma fiscale che inaspriva le imposte per i ceti più elevati
Questo piano fu elaborato con l’aiuto di studiosi e politici, quello che venne chiamato il brain trust.

Inoltre egli favorì la sindacalizzazione dei lavoratori e il sistema nazionale di previdenza per assicurare la pensione; istituì un controllo federale della attività bancarie, un controllo dei rapporti tra le società finanziare e le imprese di pubblica utilità. Le organizzazioni sindacali appoggiarono l’operato di Roosvelt fino alla sua rielezione nel 1936.

Queste politiche fecero il paio con le teorie dell’economista inglese Keynes che sostenne la politica interventista statale contro il conservatorismo politico dei governi europei; puntare su una più vigorosa politica di spesa pubblica da realizzare con deficit di bilancio (e non con nuove tassazioni).

L’obiettivo era quello di aumentare l’occupazione, il potere di acquisto nazionale e stimolare la ripresa degli investimenti privati e di fondamentale importanza fu il ruolo della Banca centrale.

Nella Teoria generale, Keynes afferma che sono giustificabili le politiche destinate a stimolare la domanda inperiodi di disoccupazione, ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica.

Keynes non ha piena fiducia nella capacità del mercato lasciato a se stesso di esprimere una domanda di piena occupazione, ritiene necessario che in talune circostanze sia lo Stato a stimolare la domanda. Ciò potrà essere finanziato anche tramite politiche di deficit di bilancio; l’indebitamento pubblico, sotto determinate ipotesi, non aumenterà il tasso di interesse al punto di scoraggiare l’investimento privato.

Queste linee risultarono vincenti e il cosiddetto “New Deal” trainò fuori dalla crisi mondiale prima gli Stati Uniti epoi il resto del mondo, ovviamente oggi non è ne pensabile ne possibile applicare queste direttrici in maniera totale e univoca ma comunque possono e quantomeno dovrebbero essere di spunto e riflessione per correggere il tiro delle proposte che sono state messe in campo e che già appaiono deboli e controverse.

Il principale problema dell’economia italiana non risiede nell’elevato volume del debito pubblico, ma  soprattutto nella bassa crescita economica, occorre coniugare rigore di bilancio con misure che incentivino consumi e investimenti, ciò è molto difficile da raggiungere, ma si possono porre alcune considerazioni.

Gli investimenti dipendono in larga  parte dalle aspettative degli imprenditori, ma è difficile immaginare interventi di politica economica che, per soli effetti di annuncio, ne producano l’aumento, quindi a mio modo di vedere è più efficace, almeno nel breve periodo, provare ad agire sui consumi.

Si può partire dalla constatazione per la quale la bassa crescita dell’economia italiana è in larga misura imputabile alla modesta capacità di spesa delle famiglie, a sua volta connessa al basso livello dei salari (e alla continua riduzione del loro potere di acquisto). Ma  questo non è un prodotto dalla crisi in corso.

Il Fondo Monetario Internazionale stima che, negli ultimi dieci anni, il tasso di crescita in Italia si è assestato a un modesto 2.43% e che il PIL pro-capite resta ai livelli del 1998, a fronte di una crescita media nell’eurozona di oltre 10 punti percentuali superiore nel periodo considerato.

Con riferimento ai salari, l’OCSE registra che lo stipendio netto di un lavoratore italiano è di circa 1.300 euro al mese, a fronte dei 2.800 euro al mese di un suo collega inglese. Il salario medio di un lavoratore tedesco è di circa il 24% superiore a quello di un lavoratore italiano e quello di un francese di quasi il 18%.

Fra i 30 Paesi industrializzati presi in considerazione, l’Italia si colloca al 23esimo posto per livello medio delle retribuzioni, seguita solo da Portogallo, Turchia, Repubblica Ceca, Messico, Slovacchia e Ungheria.

Le misure di precarizzazione del lavoro spiegano parte del problema, e non vi è dubbio che la riduzione della sicurezza dei lavoratori ha significativamente contribuito alla riduzione della quota dei salari sul prodotto interno lordo, contribuendo a ridurre il tasso di crescita e l’occupazione.

Questo è spiegabile con almeno due assunti:

1) La precarietà disincentiva le innovazioni.

Se un’impresa può ottenere profitti mediante la flessibilità della forza lavoro, comprimendo i salari e i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, non ha alcuna convenienza a utilizzare risorse per finanziare attività di ricerca e sviluppo. Ricerca e sviluppo danno inoltre risultati di lungo periodo, non compatibili con la competizione su scala globale. La riduzione delle innovazioni riduce il tasso di crescita e quindi la tutela sociale del lavoro dipendente. Inoltre si fa un gran parlare della cooperazione fra lavoratori all’interno di un team per aumentare la produttività del lavoro ma in condizioni nelle quali è elevato il grado di incertezza in ordine al rinnovo del contratto di lavoro, è ragionevole ritenere che la cooperazione fra lavoratori si riduca. In tal senso, la “flessibilità” contrattuale tende a promuovere la competizione (o il conflitto) fra lavoratori, riducendo la produttività del team.

2) La precarietà riduce la propensione al consumo.

La somministrazione di contratti a tempo determinato accresce l’incertezza dei lavoratori in ordine al reddito futuro. Al fine di mantenere un profilo di consumi nel tempo quanto più possibile inalterato è ragionevole attendersi un aumento dei risparmi oggi per far fronte all’eventualità di dover consumare domani senza reddito da lavoro. Le conseguenze ipotizzabili sono due: da unlato, le imprese fronteggiano una domanda di beni di consumo in calo; dall’altro, possono produrre quantità maggiori di beni e servizi con un numero inferiore di lavoratori. L’esito inevitabile è il licenziamento o la non assunzione.

La somministrazione di contratti a tempo indeterminato consentirebbe invece la crescita della domanda anche per il tramite della maggiore solvibilità dei lavoratori e del più semplice accesso a finanziamenti bancari e si può ipotizzare un effetto positivo, in prima battuta sulla domanda di abitazioni e, a seguire, sull’indotto in quel mercato.

Se si intende far riprendere la crescita economica in Italia senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, non si dovrebbe escludere ciò che l’evidenza teorica ed empirica suggerisce e trarne le dovute conseguenze: riscrivere la legge 30/2003 (la cosiddetta Legge Biagi) che tra l’altro sarebbe un’operazione a costo zero.

Oltre che rilanciare la crescita è necessario creare meccanismi efficaci per regolamentare i mercati finanziari mediante una maggiore sorveglianza macroeconomica, compresi i meccanismi di allerta e sanzione, per bloccare la speculazione cambiando trattati e regole per consentire una radicale ristrutturazione del debito, tagliando ad esempio quello nei confronti dei fondi speculativi e delle banche che hanno beneficiato degli aiuti pubblici per poi tornare a speculare. Sono necessarie inoltre misure volte  alla tassazione delle transazioni finanziarie e il blocco delle famigerate vendite di titoli “allo scoperto”.

E’ altrettanto indispensabile che ci sia una netta distinzione tra banche commerciali (finalizzate al credito) e banche d’affari (speculative).

C’è bisogno di aprire nuove linee di credito (tramite eurobond, nuova moneta, tobin tax) per la riconversione ecologica dell’economia. bisogna operare grandi e nuovi investimenti sulla conoscenza. Grandi piani industriali e programmi nazionali: sull’energia da fonti diffuse e rinnovabili, sui trasporti e la mobilità sostenibile, l’agricoltura biologica, l’efficienza energetica degli immobili pubblici e privati, sulla difesa del territorio.
Per rilanciare una diversa economia, più centrata sulle risorse, vocazioni e aspirazioni dei territori, è indispensabile però determinare subito una drastica redistribuzione delle ricchezze attraverso politiche fiscali che colpiscano i grandi patrimoni immobiliari e finanziari, l’evasione e i paradisi fiscali.

In Italia negli ultimi decenni sono cresciuti a dismisura gli squilibri tra i pochi che posseggono tanto e i tanti sempre più poveri e precari. Il debito pubblico è gonfiato da sprechi e privilegi, spese militari, grandi opere dannose, finanziamenti a imprese che poi delocalizzano, licenziano, precarizzano il lavoro, debito che continua a galoppare a causa degli interessi a tasso da usura applicati ad esso da chi oggi ci vorrebbe ricattare e ad i quali a nostra volta possiamo fare pressioni perché, è utile ricordarlo, nostra insolvenza improvvisa e generalizzata travolgerebbe tutte le economie europee, l’Euro e la stessa U.E.

E’ di fondamentale importanza quindi che la politica recuperi il potere che essa stessa ha ceduto ai mercati ed alla finanza non capendo che il processo di cannibalizzazione è insito nell’uomo e non nei sistemi. Dobbiamo ri-democraticizzare la politica tornando ad un sistema elettorale proporzionale e proponendo strumenti utili al coinvolgimento dei cittadini, lavoratori, utenti, nelle scelte sui beni comuni ed i servizi che attengono i diritti basilari.

Il compito della politica italiana sta nel cercare un nuovo equilibrio partendo dalla inevitabilità della rottura dell’equilibrio esistente come conseguenza delle riforme, riforme che abbiano la funzione generatrice per la collettività di rendimenti superiori al costo delle riforme stesse.

Se a qualsiasi forza seria di sinistra, si chiede di rinunciare all’obiettivo di riforma del meccanismo di sviluppo esistente, si chiede qualcosa che nessun uomo della sinistra degno di questo nome potrà mai dare, pena la rinuncia ad una fondamentale e caratterizzante posizione.

A partire dal risanamento del settore pubblico, disarticolato da anni di troppo facile ed allegra amministrazione, è condizione del successo della sua politica, impegno riformatore non minore di altri, se la politica di centro-sinistra vuole avere per sé l’avvenire.

Ma se volere riformare un meccanismo di sviluppo esistente significa non volerlo distruggere, ma perseguirne il potenziamento dell’esistente, allora la sinistra italiana avrà fallito.

Per ottenere un nuovo equilibrio è necessario distruggere quello esistente, è necessaria una netta discontinuità con il passato sia nei metodi ma anche negli uomini che sono portatori dei metodi.

Cristian Odoardi

le scelte si fanno per tempo e non per contrarietà…

Le tasse sulla casa, invece di scendere, come hanno sempre detto i berluscones, sono destinate a salire. Nonostante l’eliminazione  dell’Ici sulla prima casa, avvenuta nel 2008, ora con la manovra finanziaria le tasse sugli immobili torneranno a crescere, infatti l’Irpef tornerà ad interessare l’abitazione principale ma solo dal 2013 in poi… per la serie se la veda il prossimo governo con il malcontento dei cittadini meno abbienti.

La clausola di salvaguardia contenuta nella manovra varata nei giorni scorsi prevede infatti un taglio delle agevolazioni fiscali, detrazioni e deduzioni, del 5 per cento nel 2013 e fino al 20 per cento nel 2014. Un meccanismo che è già legge dello Stato e che entrerà in vigore se non sarà varata la riforma del Welfare.

E tra le agevolazioni, una delle più in vista è proprio la deduzione integrale della rendita catastale dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale, cioè la prima casa e relative pertinenze. Di conseguenza la rendita catastale (tariffa d’estimo della zona relativa per numero dei vani rivalutata del 5 per cento) attualmente, grazie ad una norma introdotta dal centrosinistra nel 2001, non concorre a formare l’imponibile Irpef.

dal 2013 le cose cambiano. Con il taglio previsto al momento della compilazione della denuncia dei redditi i proprietari della casa di abitazione dovranno sommare al proprio imponibile Irpef anche il 20 per cento del valore della propria casa, ovvero della rendita catastale.

Una stangata che colpirà 24 milioni e 200 mila italiani, possessori di prima casa.

Quindi prima si è sbandierata l’eliminazione dell’ICI sulla prima casa (norma che ha tolto soldi ai Comuni), e ora si introduce una tassazione sulla prima casa che però andrà direttamente nelle casse dello Stato (i Comuni ricevono solo una compartecipazione Irpef), ma questo accadrà dal 2013 in poi quindi quando presumibilmente al governo ci saranno altri che faranno i conti con la delusione degli italiani, perché purtroppo la massa si accorgerà di questa cosa solo quando effettivamente la pagheranno perché normalmente si è troppo impegnati a guardare il grande fratello in tv…

Cominciamo a dirle queste cose, parliamone, scriviamole, condividiamole usando internet che è l’ultima risorsa “libera” che ci resta ma che se usata bene può essere il fulcro di una consapevolezza che spesso non fa comodo avere perché mette di fronte a realtà sgradite… è semplice fare spallucce ed essere menefreghisti fin quando poi non ci si scontra con la dura realtà.

Un grande cantante e poeta diceva “le scelte si fanno per tempo e non per contrarietà…”

per capirci qualcosa in più…

mi è sembrato interessante condividere questo articolo di Eugenio Scalfari apparso oggi sul sito di Repubblica.

buona lettura

Un cura immediata da 12 miliardi

di EUGENIO SCALFARI LA BORSA italiana ha paurosamente sbandato nella prima mattinata di ieri, poi si è ripresa. L’emissione di titoli del Tesoro è andata male, c’è stato un calo della domanda e un’ulteriore impennata dei rendimenti e dello “spread” rispetto al Bund tedesco. Le altre Borse europee hanno continuato a ballare per tutta la giornata e la stessa cosa è avvenuta a Wall Street. L’attacco della speculazione è dunque rivolto contro tutta la finanza europea e non soltanto contro l’Italia. Ho avuto modo di parlarne ieri con Mario Draghi. La sua valutazione riguarda la necessità che il Consiglio dei Capi di Stato e di governo dell’Unione europea che si riunirà tra una settimana decida di rafforzare anzi di costruire una politica unitaria che finora non c’è stata e la cui assenza ha stimolato l’aggressività della speculazione e la fragilità dei mercati. Avremo dunque ancora alcuni giorni molto agitati in Europa (e anche in Usa) prima di “riveder le stelle”. E in Italia? I commentatori italiani hanno spiegato il miglioramento di Piazza degli Affari con la dichiarazione di Tremonti appena rientrato da Bruxelles a Roma: “Torno al mio posto per chiudere la manovra”.

Il presidente del Senato dal canto suo ha fissato per giovedì il voto ed ha incassato l’accordo delle opposizioni a collaborare costruttivamente con il governo. Napolitano segue minuto per minuto l’andamento dei mercati e il comportamento delle forze politiche e ne sollecita il senso di responsabilità. L’insieme

di questi fatti spiegherebbe il recupero del mercato italiano dopo un inizio che faceva temere il peggio, ma non dice tutto. I mercati non danno gran peso alle dichiarazioni politiche se ad esse non seguono fatti concreti e se ne infischiano delle intenzioni di Alfano, di Bersani, di Bossi e di Schifani. Se ne infischiano anche delle dichiarazioni di Tremonti. Se l’andamento del mercato italiano ha registrato un recupero, ciò si deve soprattutto ad un massiccio intervento della Bce che ha acquistato titoli pubblici italiani per sostenerne il corso e alleggerire le nostre banche. Questa è la vera ragione del recupero e il deterrente che l’Europa può mettere in campo. Se il prossimo Consiglio dei Capi di Stato e di governo autorizzerà la Bce ad utilizzare il fondo già esistente per intervenire sui mercati in difesa dell’euro, la schiarita sarà duratura. Quel fondo ammonta a 500 miliardi con i quali la Bce può sbarrare il passo alla speculazione con un efficace tiro di controbatteria. Naturalmente ciascun paese deve dal canto suo mettere in campo politiche economiche adeguate che affianchino le iniziative prese dall’Ue e dalla Bce. L’Italia in particolare deve costruire una politica economica che sia all’altezza del suo peso: è il terzo tra i paesi ricchi dell’Eurozona; come ha ricordato ieri Ezio Mauro, il nostro debito pubblico rappresenta il 25 per cento del Pil dell’Eurozona, troppo elevato per farci fallire, ma anche impossibile da salvare se il fallimento diventasse inevitabile. In quel caso sarebbe l’intero sistema dell’euro ad affondare.

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C’è un problema di credibilità politica italiana ed anche un problema di credibilità tecnica. E’ difficile dire quale sia dei due quello di maggior peso. La credibilità politica del nostro governo è prossima allo zero in Europa, ma anche la credibilità tecnica si aggira su quel livello. Per dirla con parole chiare: la manovra attualmente in discussione in Parlamento è piena di buchi, di contraddizioni, di proposte sbagliate nel merito e nella tempistica. La sua approvazione al Senato entro giovedì dimostrerà soltanto il senso di responsabilità delle opposizioni, ma non cambierà la natura d’una operazione che è del tutto inefficace e a sconfiggere la speculazione e le reazioni negative del mercato.

Abbiamo già esaminato le manchevolezze della manovra. Le principali sono i due spacchettamenti effettuati dal ministro dell’Economia: quello d’aver collocato il grosso dell’operazione nel biennio 2013-14 e l’altro d’avere limitato la manovra vera e propria a 25 miliardi affidando la reperibilità degli altri 15 alla legge delega della riforma fiscale. Questo duplice spacchettamento ha lasciato il campo libero alla speculazione per tutto l’esercizio attualmente in corso. Tremonti ha più volte dichiarato che i conti pubblici italiani erano in sicurezza per tutto il biennio 2011-12. La risposta dei mercati è stata tale da ridurre a zero la credibilità del ministro. Dimostra che alla guida dell’Economia c’è un timoniere che naviga a vista e non ha alcuna percezione degli scogli disseminati sulla sua rotta. Ma questi non sono i soli errori contenuti nella manovra. Un errore è stato quello d’imporre una vera e propria patrimoniale sui titoli depositati presso le banche.

Dovrebbe fruttare un gettito di 3,6 miliardi ma scoraggerà l’affluenza di risparmio in Borsa e quindi il finanziamento degli investimenti sia pubblici sia privati. Un altro errore è stato quello di rinviare “sine die” il taglio dei costi della politica. Potevano fruttare almeno un miliardo. Molto di più se fossero state abolite le Province. Il solo azzeramento dei vitalizi agli ex parlamentari vale 218 milioni. Personalmente riscuoto come ex deputato un assegno netto di 2400 euro mensili.
Cinque anni fa inviai una lettera ai questori della Camera chiedendo che mi fosse annullato. La risposta fu che ci voleva una legge recepita dal regolamento della Camera, in mancanza di che l’assegno mi sarebbe stato comunque accreditato. Mi domando che cosa si aspetti ad annullare i vitalizi, ad allineare lo stipendio dei parlamentari a livello europeo, a diminuirne il numero, ad accorpare le Province e i Comuni.

Tornando all’insieme della manovra, 15 miliardi sono attesi dalla riforma del fisco. Significa che la nuova fiscalità dovrebbe concludersi con un saldo attivo di almeno 15 miliardi da destinare appunto al risanamento dei conti pubblici (ma non ci aveva detto il ministro che erano stati risanati?). Non conosciamo tuttora da dove verranno quei 15 miliardi perché l’architettura della riforma è sconosciuta (perfino al ministro?). Che cosa debbono pensarne gli operatori, i mercati, la speculazione? Penseranno questo: quei 15 miliardi in realtà sono una scommessa, l’intera manovra sarà parzialmente operativa non prima del 2013, la prateria è dunque aperta alle incursioni speculative d’ogni tipo e genere. Questa è stata la lungimiranza di Tremonti. E questa sarà la manovra che il Senato approverà giovedì. Pensare che basterà a calmare i mercati significa sognare a occhi aperti.

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C’è una sola cosa da fare e da fare immediatamente: anticipare con decorrenza immediata le operazioni collocate nel 2012 e nel 2013. Anticiparle per un ammontare di almeno 10 miliardi puntando soprattutto sul taglio di spese e non su inasprimenti fiscali. Insomma elevare la manovra per il 2011 dagli attuali due miliardi a dodici. Questo deve proporre Tremonti al governo del quale è parte e questo deve ottenere. La manovra così emendata è quella che il Parlamento deve approvare. Diversamente approverà un documento scritto sull’acqua, privo di qualsiasi attuale efficacia. Dopodiché sia il presidente del Consiglio sia il ministro dell’Economia dovrebbero sgombrare il campo. Di danni ne hanno fatti fin troppi. Il loro ritorno a casa sarebbe l’unico regalo che dovrebbero fare al paese.

Questi sono proprio matti…oppure c’è un disegno?

questa è la domanda che mi pongo con un certo stupore dopo aver letto la notizia che nel testo della finanziaria che oggi è stata consegnata al Presidente della Repubblica c’è di nuovo un attentato alle energie rinnovabili…  (leggi l’articolo di repubblica.it)

ridurre del 30%  gli incentivi che poche settimane fa erano già state ridotte rispetto al testo precedente significa mettere in ginocchio un settore che stava faticosamente riprendendosi dopo il lungo stop imposto dall’incertezza legata al rinnovo delle tariffe incentivanti per l’anno 2011 e successivi….

sinceramente vien da pensare che se non sono matti c’è qualche oscuro disegno per favorire qualcuno a discapito di altri… solo che gli altri siamo noi… e per noi non intendo solo chi come me lavora nel settore delle energie rinnovabili ma tutti coloro vorebbero dare ai nostri figli un futuro più pulito e libero dalla schiavitù del petrolio…